Ci sono momenti, immagini, ricordi che rimangono lì, quiete, nel profondo, e affiorano in superficie al momento giusto. È stato così quando, a inizio 2010, pensavo al viaggio che avrei voluto fare in Africa di lì a breve, e la mIa mente andò alle immagini del film “Gorilla nella nebbia” del 1988, in cui Sigourney Weaver impersonava la figura della grande antropologa Dian Fossey. Il libro della Fossey, e il film da cui è tratto, segnarono, probabilmente, il primo contatto tra i gorilla di montagna e il grande pubblico. Sicuramente lo fu per me…
Il gorilla di montagna (gorilla beringei beringei) è una sottospecie del gorilla di pianura dell’Africa orientale e sopravvive sulla Terra esclusivamente in due luoghi: la catena di vulcani Virunga, sul triplice confine tra Ruanda, Uganda e Repubblica Democratica del Congo, e all’interno del parco nazionale di Bwindi in Uganda, per un totale di circa 1000 esemplari.
Noi siamo andati a trovarli nel Parco Nazionale dei Virunga, nella Repubblica Democratica del Congo (RDC). Abbiamo raggiunto dall’Uganda il confine con la RDC, un paese, allora come ora, in preda a una interminabile guerra civile, retaggio di una delle più feroci dominazioni coloniale da parte dei reali del Belgio. Per entrare nel paese e raggiungere il parco nazionale siamo saliti a bordo di un camion militare scortati da una pattuglia.
Incontrare i gorilla di montagna non è un’impresa alla portata di tutti, sia per la difficoltà di raggiungere questi luoghi non facilmente accessibili, sia per i costi. L’accesso alle visite è contingentato in numero, in modo da controllare e limitare il contatto tra gli animali e la nostra specie. Pochi turisti al giorno vengono accompagnati dai ranger a visitare alcuni gruppi familiari. La selezione si basa essenzialmente sul costo dell’ escursione, tra i 500 e i 600 $ a persona. È un po’ triste e poco etico pensare che la selezione si basi su un fattore economico, portando a una sorta di turismo di élite, sarebbe bello ci fosse un’altra via, che ne so, una sorta di patente ecologica che ci distingua e che limiti l’accesso ai più virtuosi, piuttosto che ai più facoltosi economicamente. Così come sarebbe bello pensare che il ricavo di questi accessi serva realmente a preservare l’habitat e le condizioni di vita di questi animali e non ad arricchire burocrati, politici e criminali che operano in queste aree.
Dopo un accurato briefing da parte dei rangers veniamo divisi in pochi sottogruppi di una decina di unità che si metteranno in marcia per raggiungere i diversi gruppi familiari, che di volta in volta vengono alternati per la visita. Il gorilla di montagna è un animale sociale e si riunisce in gruppi di circa una trentina di individui con a capo un gorilla maschio, il silverback, chiamato così per la striscia di pelo argenteo che porta sul dorso. Questo maschio alfa ha il ruolo di guidare gli altri gorilla fino a luoghi sicuri dove cibarsi e riprodursi. Si spostano quotidianamente nella foresta e i ranger che battono continuamente la zona danno via radio le indicazioni per riuscire a trovarli. Cercarli è un’esperienza che lascia senza fiato, letteralmente. Il cammino per raggiungere i gruppi di gorilla di montagna è lungo e faticoso, attraverso una fitta boscaglia con radici che bloccano il sentiero, ma anche con occasionali guadi di torrente, salite di terriccio scivoloso e discese scoscese. Per non parlare del fango, la polvere, l’umidità e gli insetti. Dato che si spostano sempre non esistono sentieri, ma di volta in volta i ranger, utilizzando il machete, ne aprono uno. Il cammino può richiedere qualche ora ed è un crescendo di emozioni e aspettative: i ranger ci mostrano le orme che segnano il passaggio dei gorilla e dalla consistenza dei residui organici ci fanno via via capire che ci stiamo avvicinando al punto in cui si trovano in questo momento. Gli ultimi momenti sono i più emozionanti, capiamo che siamo ormai arrivati quando ci viene richiesto di indossare una mascherina, necessaria a prevenire qualunque forma di trasmissione di nostri germi che potrebbero essere fatali per loro e poi, al culmine dell’attesa, il taglio con il machete dell’ultimo arbusto che li nascondeva alla nostra vista e un’emozione fortissima che ti lascia senza fiato.
Li vedi lì, grandi e piccoli insieme, intenti nella loro quotidianità, li senti così vicini a te, i cuccioli che giocano carichi di energia, saltando e correndo da un albero all’altro, i padri che sorvegliano attenti, impassibili, seri, le madri che allattano e ogni tanto allontanano, stanche, i piccoli che vogliono giocare.
Adesso siamo lì, con loro, lo realizziamo, dopo il primo momento di sorpresa, e subito richiamiamo alla mente le raccomandazioni dei ranger: restare in silenzio, o comunque non alzare mai il tono della voce, muoverci il meno possibile e, quando saremo in presenza del silverback, abbassare lo sguardo per riconoscere la sua autorità, mai fissarlo negli occhi e rimanere fermi e impassibili anche nel caso in cui si avvicinasse a noi, battendosi il petto, nel classico gesto intimidatorio che ha il solo scopo di manifestare la propria autorità e che non si trasforma mai in una forma di aggressione. I nostri occhi vagano un po’ cercando tra le foglie e la vegetazione sino a quando lo scorgiamo, lui, sua maestà il silverback.
I ranger ci circondano e si stringono a noi, non per proteggerci, quanto per assicurarsi che rimaniamo fermi, senza arretrare e, soprattutto, volgergli le spalle, qualora si dovesse avvicinare a noi. Ci ha visti, prima ci regala un po’ di indifferenza, poi emette qualche verso ad alta voce, si batte il petto. Il tempo di aver verificato che noi abbiamo capito chi comanda e poi torna alla sua indifferenza nei nostri confronti.
Si dice che i primati abbiano negli occhi lo sguardo degli uomini. In realtà siamo noi ad aver ereditato il loro sguardo, ad avere avuto in dono il privilegio di serbare tanta naturale intensità negli occhi. I loro occhi raccontano di come gli uomini li hanno derubati, cacciati, di come abbiano invaso i loro territori e di come mettano a repentaglio l’intera loro sopravvivenza.
L’Incontro con i gorilla di montagna è stata una delle esperienze più intense e formative dei miei viaggi, che mi ha offerto una maggiore comprensione di me e del mio, nostro, posto sulla Terra. Perché negli occhi iridescenti del gorilla possiamo leggere la forza della sofferenza e la dignità della sopportazione verso la prevaricazione dell’uomo, e possiamo davvero renderci conto di ciò che stiamo facendo al nostro Pianeta, e, di conseguenza, a noi stessi.
Ritornando a casa, rivedendo le foto scattate, sono rimasto interdetto: poche immagini, un numero trascurabile rispetto a tutte quelle che erano rimaste impresse sulla mia retina, e allora ho capito che mai come in quel momento, per dirla con gli U2:
You’ve got stuck in a moment and now you can’t get out of it
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